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“Parola di Art Director” di Daniele Ravenna, il primo libro sugli art director italiani.

paroladiart“Parola di Art Director” è il primo libro sugli art director italiani, scritto da Daniele Ravenna, noto copywriter.
Dal 22 marzo 2013 in libreria, il volume raccoglie e racconta i profili di 59 professionisti dell’immagine pubblicitaria italiana attualmente in attività, con i loro ritratti, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Fotografia.
Ad oggi, infatti, non è stata ancora pubblicata un’opera dedicata agli autori dell’immagine pubblicitaria attualmente in attività.
ADC Group – editore specializzato nel mondo della comunicazione attraverso testate online e offline quali, ad esempio, il sito ADVexpress e il mensile NC il giornale della Nuova Comunicazione – ha voluto colmare questo vuoto.
Con le prefazioni di Daniele Cima, Gianfranco Marabelli, Gianpiero Vigorelli, Parola di Art Director è scritto da un copywriter, ruolo che fino ad oggi ha rappresentato “l’altra metà” della coppia creativa con l’art director.
Daniele Ravenna è un copywriter contemporaneo curioso di approfondire la conoscenza degli art che gli stanno di fronte.
In un percorso metaforico attraverso i cinque sensi, l’Autore pone sul tavolo alcune domande attraverso le quali inizia la sua conversazione con gli art director, maturi e giovani, ‘classici’ o digitali, uomini e donne, milanesi e non.
Quale futuro riserva la rivoluzione tecnologica per l’art direction? È vero che l’art invecchia più rapidamente del copy perché più soggetto alle mode e agli stili del momento? Come si esprime nel proprio lavoro la ricerca del nuovo, la capacità di sapere assorbire e riproporre in maniera innovativa le tendenze che animano la società, dalla fotografia alla musica, dal cinema al design?
L’art ha una grande responsabilità, formale e sostanziale nei confronti della società: ne è sufficientemente consapevole? Il mestiere dell’art director può essere praticato in qualunque parte del mondo perché parla attraverso il linguaggio universale delle immagini. Qual è il luogo ideale dove ciascun art vorrebbe vivere e lavorare?
Ogni professionista, di cui viene presentato un curriculum ragionato, viene a sua volta interpretato da un fotografo dell’Istituto Italiano di Fotografia, col coordinamento di Wanda Perrone. Ogni immagine viene corredata da un ‘pezzo’ del portfolio e da un aforisma che, neanche a dirlo, è visivo.
Matitegiovanotte.Forlì è l’agenzia che ha realizzato il progetto grafico editoriale.
danieleravennaCon ‘Parola di Art Director’ si intende presentare e fare conoscere anche alla platea più vasta di coloro che a vario titolo sono interessati alla comunicazione, i volti e anche il modo di sentire il proprio mestiere che hanno i protagonisti della parte visiva dei messaggi pubblicitari.
Alle domande interessanti che Daniele Ravenna ha posto agli art director intervistati, vogliamo aggiungere una serie di domande fatte direttamente all’autore del libro.
danieleravennaCosa ha fatto scoccare la scintilla del tuo amore per la pubblicità?
Non c’è mai stata una scintilla. Sono entrato in questo mondo per caso, come Chance il Giardiniere nell’ultimo film interpretato da Peter Sellers, “Oltre il Giardino”. Mi si è aperto uno scenario che non conoscevo e che non era nei progetti, perché non ne avevo. Andava di moda il giornalismo, i miei idoli erano (e sono) Ettore Mo, Bernardo Valli, gli inviati speciali.
Ero attratto dal disegno satirico, le stripes dei quotidiani. Non avevo idea di cosa facesse un copywriter, prima che qualcuno me lo proponesse. Fu un giovane amico art director pubblicitario, che si chiama Daniele Cima: mi propose di provarci, convinto che ci fossero analogie di modi e attitudine tra me e uno dei suoi “capi”. Era Renato Granata, un giovane eccellente copywriter già partner e direttore creativo della TBWA di Milano, che stava appunto cercando un assistente, purché totalmente “vergine” del mestiere. Così il 2 maggio 1974 finì la mia festa relativamente lunga di non-lavoratore. E ne iniziò una da “pesce fuor d’acqua”, una condizione che credo mi abbia giovato.
Da quando hai iniziato, l’advertising e la comunicazione in generale hanno subito profondi cambiamenti, cosa ricordi con nostalgia e cosa, invece, sei felice che sia finito?
Ricordo con nostalgia il lusso di avere il tempo per rifinire, cesellare, riempire i cestini dell’agenzia di fogli appallottolati sfilati nervosamente dalla macchina da scrivere Olivetti Lettera 32, con quei tasti sui quali si picchiava sonoramente con due dita, quasi che le headlines e le bodycopies volessimo scolpirle. Ultimamente un bravo esecutivista di lungo corso come Beppe Mazzetti, che guida il gruppo dello storico studio milanese Cow Boys, mi ha ricordato che in quegli anni, quando correggeva le bozze delle campagne stampa, era capace di distinguere un testo scritto da Pirella da uno scritto da Pilla, Mignani, Borsani, Diaz o Barbella. Dagli stili.
Dalla scatola degli attrezzi del copywriting si metteva spesso mano all’ironia, un’arma che attiene alla sfera dell’intelligenza, nella quale si è molto distinto il mio secondo “maestro di bottega” dopo Renato Granata: Emanuele Pirella. A posteriori penso che l’ironia delle grandi campagne pubblicitarie dell’epoca, ma anche dei piccoli annunci, fosse un antidoto con il quale si cercava di dribblare l’imbarazzo di appartenere comunque al gruppo dei “persuasori occulti”, definizione inquietante appresa dal saggio del sociologo Wright Mills quando ero stato studente nel corso di laurea in filosofia. L’ironia era una forma di distacco, come per dire “faccio parte di questo sistema però lo prendo un po’ in giro”. Essere ironici significava essere controcorrente rispetto alla pubblicità retorica imperante. A questo riguardo c’erano poche agenzie-scuola di pensiero a concentrato contenuto di copywriting, come l’Agenzia Italia, versus l’approccio d’impatto tutto visivo e con “slogan”, come si diceva, “alla Armando Testa”. In quegli anni lontani da internet mi sembrava un grande privilegio potere, e forse era anche dovere, sfogliare le più belle riviste illustrate internazionali come la tedesca Stern o la classica Life, non tanto per guardare la pubblicità quanto per esporsi con i nostri neuroni ancora immacolati agli stimoli di immagini e fatti che succedevano nel mondo. Ed essere addirittura pagato per farlo.
Ho nostalgia del periodo difficile ma bello vissuto con Realität, una forma utopistica di agenzia ispirata dalla verve propositiva di Daniele Cima, fondata nella premiata Bottiglieria Provera sui principi solidali di un rigoroso egualitarismo. In quel luogo si incrociavano creativi di fama, come lo svizzero Graedinger della GGK quando passava da Milano. Fu un coraggioso esperimento giovanile, unico a Milano e credo quindi in Italia, che meriterebbe di essere studiato. Con Carlo Tosi come account e Peter Legge, Nadir Baraldi, Rossella Molaschi, Paolo Del Bravo, Lucio Soltazzi, Adriano Molaschi, il modello nacque sulla scia della prima crisi economica dei ’70, prima di sciogliersi nei primi ’80. Oggi tornerebbe attuale ed utile analizzarlo.
Non ho rimpianto invece dei momenti di stress provato trovandomi di fronte alle difficoltà di un mestiere che ancora conoscevo poco. Ho somatizzato qualche inadeguatezza, ma quasi nessuno di chi mi stava intorno se n’è accorto: tirare notte in agenzia, sentirsi sempre giudicato… un tipo di difficoltà che mi creavo io stesso, poi tutto si è ridimensionato. Oltre ai cambiamenti interiori, ho assistito anche ad un paio di rivoluzioni tecnologiche che hanno ribaltato molte cose dell’advertising; ne parla il mio libro “Parola di Art Director”, in cui essi si esprimono sull’evoluzione del loro mestiere. Hanno visto grandi cambiamenti, rispetto ai copywriter. Dal loro coro di voci –infatti è un’opera collettiva – ho avuto la sensazione che siano consapevoli di quanto siano diventati potenti i mezzi di cui dispongono, e questo è piuttosto ovvio; ma è interessante notare quanto sia ancora irrinunciabile uno strumento come la matita davanti al foglio bianco.
Il punto di partenza di un’idea è ancora quello, dicono perfino i più giovani art director “digital native”. Malgrado tutto, la matita ha ancora la punta.
Un altro aspetto positivo del nuovo, benché sia prematuro che questo possa già indurre un mutamento psicologico, è che i cyber-creativi evoluti del digital stanno fondando un modo inedito di lavorare, ancora più fortemente contrassegnato dal team: li vedo giocare in ruoli diversificati e complementari; sono i “doers”, fattivi e concreti sviluppatori di operazioni vaste e complesse. L’approccio al lavoro di questi creativi d’oggi appare più “democratico”, probabilmente meno individualista. Le nuove forme di advertising mi sembrano più “umili”, apparentemente s’intende, però capaci di effetti ben maggiori per impatto ed estensione. E quindi portano soddisfazioni e redemption di grandi proporzioni e misurabili dagli autori stessi, che alla fine sono costretti a dividersi i meriti, da buoni fratelli: un po’ a te, un po’ a me, un po’ a lui.
Nasce un creativo collettivo. Una generazione meno narcisistica e blasonata. Forse vedremo meno bluff e rivalità in giro, anche se le medaglie ci saranno sempre.
Vuoi vedere che si estinguerà la specie elitaria dei “creativi superstar”?
Come pensi che la professione del copywriter si sia evoluta e quale nuovo ruolo deve giocare il copywriter di domani?
E l’art director?
Il copywriter come sai ha svolto un ruolo principe nella comunicazione degli anni ‘70; poi ha lasciato più spazio al territorio di competenza dell’art director, anche troppo, negli anni ‘80 e ‘90. Siamo arrivati a sentir celebrare il fascino di commercial televisivi, definiti belli perché incomprensibili…
Ora non credo si possa tracciare una linea di demarcazione e una storia disgiunta tra le competenze dell’art director e quelle del copywriter, su questo punto ci troviamo tutti d’accordo. A quale copywriter non è successo almeno una volta di sentirsi un art director mancato, e viceversa, nello scambio che si verifica tra i due della coppia? L’ultimo colpo al cerchio di un claim televisivo me lo ha dato Alessandra Clementi, art director della Havas WW Milano, dicendo: Oro Saiwa. Il nostro biscotto quotidiano.
Il copywriter di domani avrà lo sguardo “onnisciente”, la visione olistica del progetto di comunicazione, di cui terrà le redini. Sarà un “concepteur” per dirla come Lorenzo Marini, ma agli altri livelli sarà anche un writer avvincente maestro di storytelling, nel descrivere e sostenere la tesi di un’idea declinabile in tutte le sotto-dinamiche del progetto.
Un po’ ghost-writer come lo erano i sofisti, tornando alla Grecia antica. In piccolo succede già nei filmati di immagini e parole, che presentano i touch points di un’idea.
Qui non vorrei dilungarmi sugli art director di domani. Il libro “Parola di Art Director” raccoglie, dopo averle stimolate, le sensazioni di 59 professionisti. Credo che il copywriter in generale possa evolversi in modo più duttile, e che anche perciò invecchierà più lentamente del suo compagno di avventure, nel lungo cammino della loro evoluzione. Sia ontologicamente sia nella filogenesi. Ne riparliamo tra qualche anno?
Se dovessi indicare degli aggettivi che accomunano la maggior parte degli art director, quali useresti?
Intuitivo, pratico, socievole, estroverso, competitivo, curioso, amante (sicuramente della buona tavola), sportivo, sicuro di sé. Però vedo di fronte a me di tutto e il contrario di tutto!
Dove trovi la maggiore fonte di ispirazione delle tue idee?
Per la strada, camminando. In giro per il mondo. Seduto sulla prua di un brigantino con lo spray dell’oceano che ti bagna il naso di notte. Sul tram ho scritto “Because Every Body is Different” per un attrezzo di personal training domestico Technogym, promosso in questi mesi anche da Harrods a Londra. Un’idea viene mescolando il caffè non zuccherato nella tazzina. Pedalando. Guardando lo skyline metropolitano da una finestra di casa. Alle 6 del mattino prima di riaddormentarmi, poi mi sveglio per accorgermi che era come il sogno, in cui suono come Jimi Hendrix, ovvero che a quell’idea manca qualche pezzo per stare in piedi. O trovo un’idea per terra, chinandomi a raccogliere la penna; alzo gli occhi e torno a guardare l’art director. L’afflusso di sangue al cervello produce la chimica. Non era quella la sintesi che stavamo ricercando insieme?
Hai voglia di raccontarci un aneddoto divertente che ti è capitato durante il tuo lavoro?
Un magistrale colpo di biliardo che ho tirato en passant con la stecca, nel pub interno della famosa agenzia londinese CDP. Non ho mai giocato a biliardo! Mi dispiace andare sul personale, ma altrimenti che aneddoto sarebbe? Nella Young & Rubicam di cui sono stato uno dei direttori creativi c’era una saletta con cucina in un appartamento contiguo, dove si poteva pranzare. Lì c’era la “Signora” che faceva le penne al pomodoro come nel sud, semplici e squisite; l’amministratore delegato apprezzava il gusto asprigno delle mele annurche, le sue predilette; i discorsi dei cinque o sei commensali erano alti, rarefatti, me ne sfuggiva il senso. Era nel mio diritto accedere alla saletta, quale membro del Consiglio di Amministrazione. O appunto, dicevo prima, come Chance il Giardiniere. Provavo una sorta di imbarazzo e incominciai a frequentare la saletta o “ il quadrato degli ufficiali”- secondo la mia visione da pesce fuor d’acqua – entrandovi prima o dopo il pranzo dei commensali. Ma un giorno trovai la sorpresa di vedermeli tutti seduti al tavolo…e con un gesto rassicurante della mano, il palmo rivolto verso il basso, dissi una delle poche parole che devono avermi mai sentito dire: “Comodi, Signori, comodi!” Come in un film di guerra, nei sommergibili.
La campagna pubblicitaria che ti ha dato maggiori soddisfazioni?
Un po’ come per i figli, non è simpatico fare preferenze, qualcuno ci resterebbe male.
Ma una piccola soddisfazione ci fu, scrivendo per la Volkswagen Golf: Motus Symbol.
Mi era giunto all’orecchio che il mio “maestro” Pirella, pur stimandomi, diceva che scrivevo le headlines lunghe. Oggi mi accorgo che la campagna “Vecchia Romagna. Intense emozioni.”, (direttore creativo Mario Labella, art Marco Zanichelli, il film del tango girato per la prima volta da Luca Maroni con Filmmaster), con quel claim dice ancora qualcosa alla gente. Lo stesso claim in onda dal mese di ottobre del 2000, tredici anni fa. Concepito con uno sforzo a bassa intensità rispetto ad altri.
Cosa non sopporti nel tuo lavoro?
L’autoreferenzialità: è come l’aria condizionata in macchina quando la metti in riciclo e poi te ne dimentichi (andrebbe usato solo quando hai un camion inquinante davanti). Nel nostro mestiere è meglio uscire dall’auto, uscire anche dalla metafora, e andare a piedi o in bicicletta. Fa solo bene.
Cosa adori nel tuo lavoro?
Il fatto che malgrado tutto, se preso a piccole dosi, non sembri un lavoro.
Il fatto che sia così difficile raccontarlo, il lato inafferrabile, fuggevole e inconfessabile, con buona pace della mamma di Séguéla che s’immaginava il figlio pianista in un bordello. Per te è stato così, n’est-ce pas Jacques?
Cosa diresti ad un giovane collaboratore, bloccato davanti ad un foglio bianco?
Esci a fare due passi. Pensa ad altro. Prendi le distanze. Siediti su una panchina del parco dove hai un campo visivo largo più e lungo. Cerca un bar o una bocciofila, se avrai la fortuna di trovarne ancora una. Se vuoi, porta con te il foglio bianco e una penna. Non mi è difficile farlo, sono stato freelance per la maggior parte del tempo. Dovrebbe essere previsto dal regolamento delle agenzie pubblicitarie che fanno timbrare. Codice di uscita: vado- a- cercare-un’idea. Ma prima ancora, spegni il computer e stacca l’I-phone. E non spaventarti. “I perigli rendono l’uomo savio e danno sperienza”. La frase secentesca in italiano che lessi da ragazzo sulla trave di legno di un castello barocco svedese, alzando gli occhi per ammirare i soffitti.
Qual è la tua definizione personale di creatività?
Sii te stesso o te stessa. Anche se è una parola astratta che non mi piace.
Ringraziamo Daniele Ravenna per la sua generosa intervista, che rivela il talento, l’esperienza e la passione di un grande copywriter.

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